Caro Pierino, questa bella foto è emblematica della tua famiglia.
A cominciare da Giovanni per finire ad Alberto siete stati tutti eccezionali pescatori di polpi. Ti ricordi dove hai pescato il polpo della foto e quanto pesava?

Non ricordo di preciso ma penso di averlo pescato sulla secca della Pietra di Francescone. Peserà sugli otto chili ma non è il più grosso che ho pescato.
Il mio record è un polpo di 12 chili pescato sotto Capodorso. Una volta era normale pescare polpi di 3 o 4 chili anche ogni giorno.
Purtroppo oggi anche questo è cambiato in negativo: i polpi vengono pescati al largo con le nasse e non fanno neanche a tempo ad arrivare agli scogli a deporre le uova.
Non è stato facile incontrarci per questa intervista perché, ogni sera, all’ora giusta, tu eri impegnato con l’arrivo della tappa del Tour de France in televisione. Alla fine comunque ci siamo riusciti e siamo qui ora a raccontare della famiglia Liguori.
Innanzitutto una curiosità: Liguori è il cognome più comune a Erchie; per esempio, anche mio nonno Giuseppe faceva Liguori. Secondo te, le famiglie Liguori di Erchie sono tutte imparentate? Cioè hanno tutti un ascendente comune?
Non credo. I Liguori radicati ad Erchie da molto tempo sono le famiglie di don Ciccio, nonno di Silvietto, e quella di don Arturo, mio padre. Tutti gli altri Liguori sono arrivati da Cetara in tempi più recenti.
Sono d’accordo, infatti, in un documento del 1750 che censisce le famiglie di Cetara e quelle del ‘casale di Erchia’, come veniva chiamato, risulta esserci un solo Liguori a Erchie, evidentemente il vostro ascendente comune.
Sì è così. Ricordo che avevamo anche uno stemma di famiglia che adesso non riesco più a trovare. A parte i terreni della Chiesa che furono poi acquistati dalla famiglia Montesanto, quasi tutti i terreni di Erchie erano dei Liguori.
Infatti, come si usava una volta, godevate del ‘don’, titolo di rispetto che si metteva prima del nome con il significato di ‘dominus’, cioè padrone, proprietario. Così a Erchie c’erano, don Ciccio, don Arturo, don Angelo, donna Gina. Ma cominciamo da tuo nonno. Ti ricordi qualcosa di lui?
Ho pochi ricordi di mio nonno. Si chiamava Giuseppe e con la moglie Giuseppina abitava nella casa a fianco di don Ciccio, quella con la loggia che affaccia sulla spiaggia e che fu poi acquistata dalla famiglia De Bonis.
Parliamo delle proprietà Liguori. In pratica, le proprietà di Erchie sono state divise tra i due rami storici, quello di don Ciccio e quello di don Arturo. Qual è stata la parte toccata a don Arturo, tuo padre?
A mio padre è toccato il costone roccioso che dalla torre saliva fino alla via provinciale e scendeva fino a dietro la Chiesa e alla piazzetta S. Marco. Era un terreno vasto ma incolto che, purtroppo, non produceva niente. Non era adatto neanche al pascolo delle capre.
Parli del terreno dove adesso ci sono la casa Violante, vicino alla torre, la villa del notaio Marango, le case Di Bianco e, più indietro quella di Anna Minuz?
Sì, ma anche la torre stessa era di proprietà di mio padre.
Però neanche la torre, quasi in rovina, produceva qualcosa di utile al sostentamento della famiglia.
E’ vero, per fortuna mio padre aveva ereditato anche i terreni agricoli ‘rinta a mola’ con terrazzamenti coltivati a limoni che qualcosa rendevano ma non a sufficienza per mantenere la numerosa famiglia. Fu per questo che, nel corso degli anni, mio padre fu costretto a vendere sia la torre, sia i rocciosi terreni incolti facendo la fortuna degli acquirenti che su quelle rocce scoscese costruirono abitazioni.
E’ vero che a quei tempi i limoni rendevano bene e che venivano esportati direttamente in Inghilterra?
Sì, c’era un piroscafo che veniva a caricare i limoni direttamente sulla spiaggia di Erchie per portarli in Inghilterra. Si era scoperto che il limone curava lo scorbuto una malattia molto diffusa in Inghilterra e c’era stato un vero boom del suo commercio. I limoni venivano prima ‘spidocchiati’, cioè ripuliti dalle impurità sulla buccia, venivano quindi avvolti, uno ad uno, nella carta velina colorata e quindi rinchiusi in un grosso contenitore in legno. Ogni produttore aveva poi uno stampo speciale da apporre sulla cassa per indicare la provenienza. Lo stampo di mio padre riproduceva la dea Giunone.
Ma facciamo un passo indietro e parliamo di tuo padre. Credo che come tutti i nostri nonni abbia fatto la guerra del 15-18.
Sì, infatti, ha combattuto nella prima guerra mondiale in trincea da bersagliere. Da qualche parte dovrei avere ancora le medaglie commemorative. Subito dopo la guerra sposò Amalia una bella ragazza di una famiglia in vista di Cava, i Senatore. Mia madre aveva due sorelle suore e un fratello arcidiacono e ricordo che ero particolarmente felice quando veniva in visita la zia monaca perché portava sempre dei cioccolatini per noi bambini.
Questa è una bella foto di tuo padre don Arturo e di tua madre donna Amalia sulla spiaggia di Erchie.

Ma non divaghiamo. Quanti figli hanno avuto don Arturo e donna Amalia?
Hanno avuto sette figli con la cadenza di un figlio ogni 4 anni. La prima è stata Giuseppina, chiamata Geppina, seguita da Giuseppe, detto Ninnillo. Poi di seguito, Giovanni e Margherita, morta giovane per leucemia, Italo, io Pietro e infine Alberto.
Quindi ben 5 figli maschi, una benedizione per quei tempi per il lavoro agricolo.
Sì, è vero, abbiamo dato tutti una mano nella cura dei limoni a parte Ninnillo che poté studiare all’università a Napoli fino a prendere la laurea come Dottore Agrario. Avere un laureato in casa a quei tempi serviva anche ad tenere alto il prestigio della famiglia. Tutti noi altri fratelli, nelle ore libere dalla scuola, andavamo ‘rinta a mola’, seguendo il sentiero lungo il fiume, per aiutare nostro padre nella cura dei limoni.
I limoni richiedevano molta cura e quindi molta fatica. Ti ricordi i lavori che facevi?
In autunno i limoni dovevano essere potati del secco, i rami nuovi piegati sul pergolato ed infine dovevano essere coperti con frasche di leccio per proteggerli dai rigori invernali. Ricordo in modo particolare la fatica per trasportare a spalla le frasche dalla montagna, dove venivano tagliate, fino al podere. C’era poi un altro lavoro particolarmente gravoso che non mi piaceva affatto. I limoni venivano concimati con letame prelevato dai pozzi neri. Prima il letame umano veniva impastato con foglie secche di castagno e poi toccava a noi trasportarlo a spalla in grossi secchi fino al limoneto.
Immagino la fatica di andare su e giù, ma anche la puzza che dovevi sopportare.
Dal pozzo nero fino a ‘rinta a mola’ c’era da fare quasi un chilometro in leggera salita. La fatica era tanta ma, andando indietro con i ricordi, non mi sembra di ricordare che il letame puzzasse tanto. Sarà perché mi ero abituato.
Noi siamo stati gli ultimi testimoni della vita eroica che conducevano, da queste parti, le generazioni prima della nostra. Tutto era prezioso per loro, la rada erba secca falciata tra i declivi rocciosi per fare ‘tuorchi’, trecce di foraggio per il bestiame, la legna dei boschi sorvegliata dai proprietari come un tesoro, gli arbusti di macchia mediterranea estirpati per fare carbonella, l’acqua che per fortuna scorreva per forza di gravità lungo canali a cielo aperto ad irrigare i limoneti. Anche la merda umana era preziosa. Ricordo che tra le carte di mio nonno ho trovato un rogito notarile in cui si stabilivano i turni di svuotamento e utilizzo del contenuto di un pozzo nero comune. Ma torniamo a noi e parliamo della tua famiglia. Geppina, la tua prima sorella, ha ora più di novant’anni ed è rimasta vedova.
Sì. Si era sposata con Emilio Amabile che, pur essendo originario di Erchie, viveva e lavorava a Napoli nella Polizia. Con la morte di Emilio, Geppina ha venduto la casa a Napoli e ne ha comprata una a Erchie dove vive.
Veniamo a Ninnillo, il dottore della famiglia.
Ninnillo purtroppo è morto. Dopo la laurea è stato a lavorare a Verona in un centro per il controllo di qualità di prodotti agricoli. Durante un soggiorno a Erchie conobbe una giovane turista francese, René, che era in ferie nelle case di Rosalia. Nonostante la forte contrarietà di mia mamma, i due si sposarono ed ebbero due figlie.
Mi sembra di ricordare che Ninnillo ha anche insegnato per un certo periodo. E’ così?
Sì, insegnò ad Agropoli, a Ravello ed infine in Columbia. Andando in pensione si stabilì in Francia dove aveva una casa a Parigi e dove è morto.
Giovanni, invece, non continuò gli studi.
Non gli piaceva studiare ma era molto curioso, intraprendente e amante della natura. Gli piaceva allevare uccelli presi dai nidi. Ricordo che aveva cresciuto in casa una ‘piga’, una ghiandaia molto intelligente e divertente. Era appassionato di pesca e, in estate, usciva al largo con ‘Ntonio per la pesca dei tonni con la lenza.
La sua specialità era però la pesca del polpo con lo specchio. Era il solo a pescare con lo specchio?
A Erchie sì, ma a Cetara c’era Pierone che gli faceva concorrenza.
Poi descrivere come funzionava questa tecnica di pesca?
Si usava un bidone metallico di 50 litri a cui venivano tolti i due fondi e, su uno dei due lati, veniva fissato un vetro, lo ‘specchio’. La tecnica di pesca con lo specchio richiedeva molta esperienza e un occhio infallibile. Si pescava in coppia. Giovanni si metteva con la testa nello specchio steso a pancia in giù sulla poppa, mentre il fratello Italo governava la barca con i remi.
Scusa se ti interrompo. La composizione della coppia negli anni ha subito cambiamenti?
Per forza, sia Giovanni che Italo ad un certo punto sono andati via da Erchie. Come dicevo la prima coppia è stata quella di Giovanni allo specchio ed Italo ai remi, poi Italo allo specchio e io ai remi, infine, io allo specchio e mio fratello Alberto ai remi.
Questo bel ragazzo nella foto sei tu. Ma hai pescato tu questa piovra? Quanto pesava?

Nella foto sono io che sorreggo il polpo, avrò avuto 12 anni. Ma il polpo, che pesava oltre 10 chili, era stato pescato da Giovanni.
Quindi con Pierino e Alberto è finita la pesca del polpo con lo specchio a Erchie. Nessun altro ha seguito la tradizione.
Veramente la pesca con lo specchio è finita anche per l’avvento delle maschere da subacqueo.
Ok, ma vai avanti con la descrizione dell’uscita a polpi di Giovanni e Italo.
Giovanni si ficcava con la testa nel bidone, a scrutare il fondo marino attraverso lo specchio e le limpide acque. Italo era ai remi e vogando molto lentamente seguiva le indicazioni di Giovanni: mano destra, vai a destra; mano sinistra, a sinistra; un tocco sulla testa, fermo qui. Il fondale marino della costa nei pressi di Erchie verso Cetara era una meraviglia a vedersi con lo specchio. Nelle insenature della spiaggia di Caugo, di Suvarano, della Cullata, il fondale era un susseguirsi di rocce bianche ricoperte di ricci, banchi di posidonia, anfratti, tane nascoste e tratti ghiaiosi: era l’ambiente ideale per i polpi.
Di che profondità parliamo?
Fino a quattro metri che era la lunghezza del ‘lanzature’, cioè della fiocina fissata alla fine di un’asta in legna lunga 4 metri.
A proposito della trasparenza dell’acqua del mare ho un ricordo molto preciso della sensazione di vertigine che una volta ho provato in acqua. Venivo a nuoto, con la maschera, da dietro Caugo verso Erchie. Appena uscito dall’insenatura di Caugo, di fronte alla torre, mi sono sentito, come in volo, sospeso in aria ad una decina di metri di altezza sul fondale marino: era come se tra me e le rocce del fondo ci fosse solo aria. Tale era la trasparenza dell’acqua che per un attimo mi è girata la testa come sull’orlo di un precipizio. Ma veniamo a Giovanni e Italo. Con acque così limpide era facile trovare i polpi?
Per niente. Anche con le acque limpide, riuscire a vedere un polpo, campione dell’adattamento cromatico, non era per niente semplice. Il paesaggio molto vario del fondale fatto di rocce, alghe, secche e anfratti certo non era di aiuto. Giovanni, però, conosceva a memoria ogni metro quadrato del fondo marino, ogni sasso che potesse ospitare una tana.
Una volto avvistato il polpo lo si infilzava con il ‘lanzature’.
Sì nei primi tempi, poi si passò alla ‘purpara’. Individuato il polpo bastava muovere la ‘purpara’ davanti la tana e il gioco era fatto: il polpo balzava sulla purpara ed era semplice portarlo a bordo.
Poi Giovanni andò via da Erchie e Italo preso il suo posto allo specchio. Come mai andò via da Erchie?
Come per Ninnillo, anche per Giovanni fu per amore. Anche lui si innamorò di un ragazza straniera ospite delle case di tua nonna Rosalia. Questa volta però era una ragazza tedesca.
Scusa se ti interrompo. Le ragazze straniere ospiti delle case di mia nonna facevano strage di cuori. Anch’io ho avuto una storia d’amore con una bella ragazza tedesca, Brigitte, che veniva in vacanza a Erchie da Francoforte ogni anno con i genitori tra maggio e giugno. Ma torniamo a noi. Giovanni si trasferì in Germania a seguito della bella tedesca e poi?
In Germania trovò lavoro in una fabbrica di motori elettrici e, dopo essersi lasciato con la ragazza tedesca, si sposò con una ragazza siciliana da cui ebbe tre figli maschi, Arturo, Franco e Massimo. Andato in pensione rimase in Germania dove è morto da qualche anno.
Dopo Giovanni, anche Italo andò via presto da Erchie. Anche lui per amore?
No, Italo era un ragazzo brillante e intraprendente che non si accontentava della vita monotona e senza prospettive del paese. Ricordo che per prepararsi ad andare via da Erchie imparò l’inglese per corrispondenza. Appena possibile si arruolò in Marina e fu mandato negli Stati Uniti per l’addestramento sui sommergibili. Andando in pensione si è fermato con la famiglia ad Amandola nelle Marche. Di tanto in tanto viene ancora ad Erchie.
Siamo infine giunti a Pierino ma prima di raschiare il barile dei tuoi ricordi diciamo qualcosa di tuo fratello Alberto.
Alberto è cresciuto con noi, abbiamo giocato a pallone insieme sulla spiaggia, sul terreno di Apicella, poi a Cetara per le sfide a pallone con i Cetaresi.
Ricordo che era bravissimo nei dribbling stretti con cambi improvvisi di direzione, un po’ come fa il giocatore del Napoli Kvaratskhelia. Io mi trovavo molto bene a giocare con Alberto nelle triangolazioni strette e veloci. Avevamo una buona intesa.
Dopo il diploma a Salerno si trasferì a Milano dove ha insegnato fino alla pensione. Anche lui di tanto in tanto torna a Erchie.
Veniamo a te Pierino. Come è stata la tua infanzia e adolescenza ad Erchie?
Siamo cresciuti insieme ad Erchie quindi sai già tutto. Quando ero molto piccolo mi ricordo che costruivo delle imbarcazioni di latta, ‘o vapore’, piegando opportunamente la lamiera della pubblicità di gelati o della coca-cola. Poi si andava in mare presso la battigia e si spingeva il ‘vapore’ con le mani fantasticando di viaggi avventurosi in mari lontani. Costruivo anche le carrette o carruoccioli mettendo tre cuscinetti a sfera a mo’ di ruote sotto una tavola e con questa scendevamo a precipizio nel canale che dalla Chiesa conduceva alla spiaggia.
A parte questi divertimenti frutto dell’inventiva dei noi ragazzi, a Erchie non avevamo altro che il gioco del pallone.
Abbiamo cominciato a giocare a calcio quando sono usciti i palloni di plastica Superflex. Prima i palloni erano di cuoio e molto rari. Con il Superflex facevamo delle partite interminabili sulla sabbia. Io ho sempre fatto il difensore.
Ricordo bene. A volte marcavi me ed era dura superarti ma mai come Angelino che era un difensore insuperabile. Quando si entrava in contatto con lui eri certo di farti male perché, giocando a piedi nudi, toccare le sue gambe era come sbattere contro una roccia. Com’è stata la tua vita da adolescente a Erchie?
C’era poco da fare e noi giovani, per ravvivare le giornate, a volte ci inventavamo delle ragazzate. Per esempio, andavamo a rubare i mandarini nei terreni del ‘Priore’. Ricordo che una volta Lucio, che non era veloce a scappare come noi, rimase nelle grinfie del ‘priore’ incazzato che gridò da lontano ‘mo te spare!’. A volte, per organizzare una cena tra ragazzi, si andava a rubare le galline. C’era Peppino che era molto bravo a tirare il collo alle galline. Saltava nel pollaio, tirava il collo alla prima gallina sotto mano e la lanciava fuori a noi che aspettavamo. ‘Ne prendo un’altra? ’ poi chiedeva. Il giorno dopo si organizzava una cena a base di pollo arrosto.
Organizzavate anche serate danzanti con le ragazze?
Certo. Ballando stretti con le ragazze a volte si abbassavano le luci ma la cosa non passava liscia: genitori e fratelli delle ragazze si facevano sentire anche con qualche ceffone … ai maschi.
Intorno ai 20 anni sei poi andato via da Erchie. Com’è successo?
Mio fratello Ninnillo mi aveva trovato un lavoro in Francia, a Besançon, così ho lavorato per qualche tempo in una fabbrica di orologi, la ‘Hermes Precisa’, ma la ditta fallì e mi trovai in una situazione difficile e precaria. Per fortuna Giovanni che lavorava in Germania venne in mio soccorso e mi portò a Monaco di Baviera dove trovai lavoro in una ditta di manutenzione di macchine per ufficio.
Come ti sei trovato in Germania?
Molto bene. Solo che avevo una grande nostalgia di Erchie e del suo mare e, a 36 anni, sono tornato in Italia.
Intanto però ti eri sposato.
Sì, è così. Tramite una mia cugina avevo conosciuto Annamaria una bella e giovane ragazza di Cava. Ci siamo innamorati subito e Annamaria non ha avuto alcun problema a seguirmi in Germania anche perché essendo molto giovane, aveva solo 18 anni, era curiosa di conoscere il mondo. In Germania è nata la nostra prima figlia Simona, mentre Arturo è nato a Cava dopo che siamo rientrati in Italia.
Avevi 36 anni, quindi ancora giovane, e tornando in Italia hai dovuto trovare un nuovo lavoro.
Sì. Per 25 anni ho lavorato a Salerno nella ‘Casa del Cuscinetto’ che, nonostante il nome, trattava impianti oleodinamici e ad aria compressa.
Andando in pensione sei tornato alla tua vecchia passione per la pesca.
Esatto, anche se non ho più fatto la pesca del polpo con lo specchio, sono diventato uno specialista della pesca con la ’purpara’ facendo concorrenza a Pasqualone. Non solo polpi comunque, anche pesca a traino, pesca con lenza di lacierti, vope, luvari ecc.. Anni fa ho fatto anche la pesca proibita dei tonnetti beccandomi una multa salata.
Non solo pesca, perché da pensionato, hai fatto rivivere anche le tue origini contadine.
Infatti ho comprato il terreno ‘ncoppa a maronna’ dove coltivo uva e ortaggi in tutte le stagioni.
Grazie Pierino per questa bella intervista e per aver condiviso i tuoi ricordi.